Ode della gelosia (fr. 31 Voigt) Indice Testo | Analisi | Successo letterario | Note | Voci correlate...


Opere letterarie in greco anticoOpere di SaffoPoesia LGBT


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Ode della gelosia

Herkulaneischer Meister 002b.jpg
Dipinto pompeiano detto Saffo
Autore Saffo
1ª ed. originale VI secolo a.C.
Genere poesia
Lingua originale greco antico

L'Ode della gelosia o ode del Sublime (fr. 31 Voigt = 2 Gallavotti) è una lirica pressoché completa di Saffo[1], citata come esempio di "sublime" dall'omonimo trattato.[2]


In quest'ode la poetessa confessa il turbamento profondo che la coglie assistendo a una scena di seduzione: una ragazza del tiaso, la scuola femminile che la poetessa dirige a Lesbo, è in compagnia di un uomo e intrattiene con lui una conversazione.[3]




Indice






  • 1 Testo


  • 2 Analisi


  • 3 Successo letterario


    • 3.1 Apollonio Rodio


    • 3.2 Il carme 51 di Catullo


    • 3.3 Lucrezio


    • 3.4 Virgilio


    • 3.5 Prima traduzione italiana


    • 3.6 Ugo Foscolo


    • 3.7 Pascoli e Quasimodo




  • 4 Note


  • 5 Voci correlate





Testo |


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(GRC)

«Φαίνεταί μοι κῆνος ἴσος θέοισιν

ἔμμεν᾽ ὤνηρ, ὄττις ἐνάντιός τοι

ἰσδάνει καὶ πλάσιον ἆδυ φωνεί-

σας ὐπακούει


καὶ γελαίσας ἰμέροεν, τό μ᾽ ἦ μὰν

καρδίαν ἐν στήθεσιν ἐπτόαισεν,

ὠς γὰρ ἔς σ᾽ ἴδω βρόχε᾽ ὤς με φώνη-

σ᾽ οὐδ᾽ ἒν ἔτ᾽ εἴκει,


ἀλλὰ κὰδ μὲν γλῶσσα ἔαγε, λέπτον

δ᾽ αὔτικα χρῷ πῦρ ὐπαδεδρόμακεν,

ὀππάτεσσι δ᾽ οὐδὲν ὄρημμ᾽, ἐπιβρό-

μεισι δ᾽ ἄκουαι,


ψῦχρα δ᾽ ἴδρως κακχέεται, τρόμος δὲ

παῖσαν ἄγρει, χλωροτέρα δὲ ποίας

ἔμμι, τεθνάκην δ᾽ ὀλίγω ’πιδεύης

φαίνομ’ ἔμ᾽ αὔτᾳ·


ἀλλὰ πὰν τόλματον, ἐπεί κ[†][4]»


(IT)

«Pari agli dèi mi appare lui, quell'uomo

che ti siede davanti e da vicino

ti ascolta: dolce suona la tua voce,

e il tuo sorriso


accende il desiderio. E questo il cuore

mi fa scoppiare in petto: se ti guardo

per un istante, non mi esce un solo

filo di voce,


ma la lingua è spezzata, scorre esile

sotto la pelle subito una fiamma,

non vedo più con gli occhi, mi rimbombano

forte le orecchie,


e mi inonda un sudore freddo, un tremito

mi scuote tutta, e sono anche più pallida

dell'erba, e sento che non è lontana

per me la morte.


Ma tutto si sopporta, poiché ...»


(trad. di G. Nuzzo)


Analisi |




Busto di Saffo conservato nei Musei capitolini a Roma


L’anonimo del Sublime cita l'ode (purtroppo sconciata da una lacuna finale) per affermare come, nella poesia, prevalga il sentimento. E per dimostrare la sua tesi riporta il carme in cui la poetessa, analizzando i vari aspetti fisici e psicologici della passione, crea una perfetta unità di sentire e raggiunge il sublime.


Proprio il commento del trattatista appare quello più fine:









«Sa scegliere e legare gli uni con gli altri i culmini di tali sentimenti e i momenti più tesi… Non ti fa meraviglia, vedendo come d’un colpo, l’anima, il corpo, le orecchie, la lingua, gli occhi, la pelle, tutte le parti insomma, Saffo le vada recuperando, quasi non fossero sue, ma disperse; e nello stesso contraddicendosi è fredda e brucia e ragiona e vaneggia, (o teme di morire o già quasi è morta) al punto che pare che in lei ci sia non una sola passione, ma un incontro di passioni»


(Del Sublime, X, 2., trad. da Il canto delle Sirene)

Secondo M. Casertano, il ruolo svolto dall'uomo nella situazione descritta rimane dubbio: di solito si pensa al promesso sposo di una delle ragazze del tiaso, che sta per condurla via da esso. Ancor meno sicura è la motivazione del fatto che costui, nella parte iniziale del componimento, venga detto «pari agli dei»: tradizionalmente si pensava a una forma di "gelosia" da parte di Saffo, poi a una sorta di "invidia" della poetessa verso l'uomo, capace di mantenere la sua imperturbabilità dinanzi a tanta bellezza; l'unica cosa certa è che Saffo fa una precisa analisi dei sintomi che accompagnano il prorompere della passione amorosa, considerata come una vera e propria sindrome patologica, e che sono nell'ordine: tachicardia, perdita della parola, febbre, annebbiamento della vista, rimbombo alle orecchie, sudorazione fredda, violenti brividi in tutto il corpo, pallore, sensazione di morte imminente.[5]


Secondo B. Conte inoltre il movimento finale, dove si interrompe il testo giunto fino a noi, lascia intendere che la poetessa stia sottoponendo la propria esperienza alla riflessione del tiaso, in modo che le ragazze siano in grado di riconoscere l'amore e i suoi "sintomi".[3]



Successo letterario |


L'ode saffica è stata più volte ripresa dai letterati successivi, sia con traduzioni che con rielaborazioni, o semplici riferimenti.



Apollonio Rodio |



Nelle sue Argonautiche (III secolo a.C.) Apollonio Rodio descrive l'incontro di Medea con Giasone in modo simile al turbamento amoroso descritto da Saffo:








«Il cuore le cadde dal petto, e gli occhi nell'istante
le si annebbiarono, e un caldo rossore le prese le guance:
più non aveva la forza di muovere indietro né avanti
le ginocchia, ma al suolo piantati restavano i piedi.»


(Apollonio Rodio, Le Argonautiche, libro III, 962 ss., trad. di G. Nuzzo)


Il carme 51 di Catullo |


Una fortunata rielaborazione è stata quella di Catullo, poeta romano del I secolo a.C.


Catullo ripropone l'ode saffica nel carme 51, introducendo importanti variazioni nel suo significato, dal momento che l'autore presenta non più una scena di gelosia, ma un confronto fra l'imperturbabilità dell'uomo e la propria vulnerabilità[3]:





Lesbia in un dipinto del pittore Edward Poynter.









(LA)

«Ille mi par esse deo videtur,

Ille, si fas est, superare divos,

qui sedens adversus identidem te

spectat et audit


dulce ridentem, misero quod omnis

eripit sensus mihi: nam simul te,

Lesbia, aspexi, nihil est super mi

...


lingua sed torpet, tenuis sub artus

fiamma demanat, sonitu suopte

tintinant aures, gemina teguntur

lumina nocte.


Otium, Catulle, tibi molestum est,

otio exultas nimiumque gestis;

otium et reges prius et beatas

perdidit urbes.»


(IT)

«Quell'uomo mi sembra pari a un dio

quello - se si può dire - supera gli dèi,

quell'uomo che sedendo davanti a te

incessantemente ti guarda e ti ascolta


ridere dolcemente, cosa che a me infelice completamente

ha sottratto i sensi: infatti non appena ti scorgo,

o Lesbia, non mi rimane nulla

...


ma la lingua si paralizza, tenue sotto le membra

scorre una fiamma, le orecchie ronzano

di un suono intero, entrambi gli occhi

si coprono di tenebre.


L'ozio, o Catullo, ti è dannoso:

per l'ozio ti esalti e troppo ti agiti:

l'ozio ha mandato in rovina re

e città un tempo ricche.»


(Gaio Valerio Catullo, carme 51, I secolo a.C.)

Secondo B. Conte, la sovrapponibilità del v. 1 con l'incipit dell'ode di Saffo segnala con grande evidenza il rapporto con il modello greco. Ma già al v. 2 Catullo se ne distacca introducendo un'amplificazione retorica: il passaggio dall'assimilazione (par) al superamento del dio (superare), unito allo slittamento dal singolare al plurale (deo/divos), costituisce un climax funzionale all'esaltazione dell'uomo. Il paragone con il dio non è dovuto alla felicità dell'uomo (come in Saffo), ma alla sua straordinaria imperturbabilità.[3]


Anche ai vv. 9-12, quando Catullo elenca i sintomi della propria malattia d'amore, si nota una differenza rispetto al modello: Saffo, come ha evidenziato Vincenzo Di Benedetto, ricorre alla terminologia concreta del lessico medico e all'accostamento parallattico dei diversi sintomi; Catullo invece supera questa importazione tecnica e ricorre a lessico e immagini più raffinati, di ascendenza alessandrina. Così, la lingua che si è paralizzata (v. 9) attenua la violenza del testo greco («ma la lingua è spezzata», v. 9); per il sintomo finale, l'oscurarsi della vista, Catullo impreziosisce l'efficace semplicità di Saffo («non vedo più con gli occhi», v. 11) con l'enallage gemina nocte (per gemina lumina) e con l'antitesi del v. 12, lumina nocte, mentre l'immagine stessa della notte che ricopre gli occhi evoca tradizionalmente la morte (a partire da Omero). L'elenco dei sintomi si chiude così con un sovraccarico di pathos.[3]


Ma l'elemento che segna più di tutti il distacco da Saffo è l'ultima strofa, che individua nell'otium la causa profonda della malattia d'amore. Esso rappresenta un paradossale ritorno alla morale tradizionale del mos maiorum, dalla quale la cerchia dei poetae novi si professava invece distante. In questo caso il termine otium acquista tutto il suo valore negativo, in quanto rende Catullo soggetto alla passione per Lesbia, conducendolo da ultimo a una vita dissipata.[3]


Il carme 51 spiega inoltre l'origine del soprannome Lesbia. Saffo, l'autrice del testo qui imitato, era infatti originaria dell'isola di Lesbo. Il soprannome dato a Clodia richiama l'ambiente colto, raffinato e affascinante della poetessa greca, con le bellissime ragazze del suo tiaso, da lei amate e cantate nelle sue odi; il poeta vuole quindi identificare Lesbia con queste ragazze oggetto di canto e se stesso con Saffo che le celebra.[3]



Lucrezio |



L'ode della poetessa greca viene ripresa in tutt'altro contesto da Lucrezio (autore contemporaneo a Catullo) nel De rerum natura. Nel terzo libro del poema il sentimento della paura è infatti descritto proprio attraverso il filtro dell'ode saffica:








(LA)

«Verum ubi vementi magis est commota metu mens,

consentire animam totam per membra videmus

sudoresque ita palloremque exsistere toto

corpore et infringi linguam vocemque aboriri,

caligare oculos, sonere auris, succidere artus,

denique concidere ex animi terrore videmus

siepe homines...»


(IT)

«Ma quando la mente è sconvolta da un più grande terrore,
vediamo che l'anima tutta se ne fa partecipe attraverso le nostre membra:
così, si diffondono sudore e pallore
su tutto il corpo, e la lingua si spezza, la voce muore,
gli occhi si annebbiano, le orecchie risuonano, le membra si accasciano;
infine, spesso vediamo persone che soccombono
a questo terrore dell'animo.»


(Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, vv. 152-158)






Catullo e Lucrezio


Rispetto a Catullo, Lucrezio si mantiene più fedele all'originale greco, pur variando in parte l'ordine dei sintomi; il catalogo ha un andamento più secco, che procede privo di aggettivazione e artifici, tramite un semplice ed efficacissimo accostamento paratattico. Naturalmente Lucrezio non può che sopprimere il sintomo dell'alterazione febbrile, troppo specifico della passione amorosa, ma gli altri tre sintomi sono descritti in uno stile asciutto ed essenziale che riconduce alla chiarezza 'scientifica' dell'ode di Saffo. A differenza di Catullo, Lucrezio inoltre riprende i sintomi descritti nella quarta strofe dell'ode di Saffo: il pallore, il sudore e l'eventualità della morte. Scopo di Lucrezio è fornire una chiara e dettagliata descrizione scientifica; egli non rifugge quindi da nessun particolare realistico che possa risultare utile a questo fine.[3]



Virgilio |



Qualche eco dell'ode di Saffo sembra esserci anche nell'Eneide di Virgilio, in particolare nel passo in cui Enea racconta a Didone l'incontro con lo spirito di Polidoro, uno dei figli di Priamo:








(LA)

«[...] Mihi frigidus horror

membra quatit gelidusque coit formidine sanguis.

[...] Tum vero ancipiti mentem formidine pressus

obstipui steteruntque comae et vox faucibus haesit.»


(IT)

«[...] Un freddo brivido

mi scuote le membra, e il sangue si gela per il terrore.

[...] Allora, oppresso la mente dubbiosa dall'orrore,

stupii, si drizzarono i capelli, e la voce si arrestò nella gola.»


(Publio Virgilio Marone, Eneide, vv. 29-30, 47-48, trad. di L. Canali)


Prima traduzione italiana |


La prima traduzione italiana del frammento 31 di Saffo da noi conosciuta risale al 1572 ed è di Giovanni Andrea dell’Anguillara[6]:






«Parmi quell’huomo eguale essere à i Dei,

qual diritto à te siede,

E dolce ragionar ti sente, e vede

Rider soavemente.

Questo à me il cor nel petto batte, e fiede:

Perché mentre mi sei

Opposta, si che con questi occhi miei

Ti vegga immantinete,

Non ho à voce formar virtù possente;

Ma impedita la lingua muta viene,

E sottil fuoco presto

Passami per le vene.

Perdon l’ufficio gli occhi di mirare,

L’orecchie d’ascoltare.

Gelo è il sudor, tutta tremante resto.

Più c’herba secca di pallor dipinta,

Priva di spirto, assembro quasi estinta.»




Ugo Foscolo |


Ugo Foscolo, che si sentiva particolarmente legato a quest'ode[7], ne diede due fortunate traduzioni.





Ugo Foscolo


La prima traduzione risale al 1790[6]:






«Colui mi sembra agli alti Dei simile

Che teco siede, e sì soavemente

Cantar t’ascolta, e in atto sì gentile

Dolce ridente.


Com’io ti veggio, palpitar mi sento

Nel petto il core, in quel beato istante

Non vien più suono d’amoroso accento

Sul labbro ansante.


Muta s’intrica la mia lingua: accensa

Scorre ogni vena, ronza tintinnio

Dentro gli orecchi; notte alta s’addensa

Sul guardo mio.


Sudor di gelo le mie guance inonda.

Fremito assale e abbrivida ogni membro,

E senza spirti, pallida qual fronda

Morta rassembro.»




La seconda traduzione risale invece al 1821:





«Quei parmi in cielo fra gli Dei, se accanto

Ti siede, e vede il tuo bel riso, e sente

I dolci detti e l’amoroso canto! —

A me repente,


Con più tumulto il core urta nel petto:

More la voce, mentre ch’io ti miro,

Sulla mia lingua: nelle fauci stretto

Geme il sospiro.


Serpe la fiamma entro il mio sangue, ed ardo:

Un indistinto tintinnío m’ingombra

Gli orecchi, e sogno: mi s’innalza al guardo

Torbida l'ombra.


E tutta molle d’un sudor di gelo,

E smorta in viso come erba che langue,

Tremo e fremo di brividi, ed anelo

Tacita, esangue.»




Pascoli e Quasimodo |





Giovanni Pascoli


Altre due fortunate traduzioni nella storia della letteratura italiana sono state infine quelle di Giovanni Pascoli e Salvatore Quasimodo:









«A me pare simile a Dio quell’uomo,

quale e’ sia, che in faccia ti siede, e fiso

tutto in te, da presso t’ascolta, dolce-

mente parlare,


e d’amore ridere un riso, e questo

fa tremare a me dentro al petto il core;

ch’ai vederti subito a me di voce

filo non viene,


e la lingua mi s’è spezzata, un fuoco

per la pelle via ch’è sottile è corso,

già non hanno vista più gli occhi, romba

fanno gli orecchi


e il sudore sgocciola, e tutta sono

da temore presa, e più verde sono

d’erba, e poco già dal morir lontana,

simile a folle.»


(Giovanni Pascoli)




Salvatore Quasimodo









«Come uno degli Dei, felice

chi a te vicino così dolce

suono ascolta mentre tu parli

e ridi amorosa. Subito a me

il cuore in petto s’agita sgomento

solo che appena ti veda, e la voce

si perde sulla lingua inerte.

Rapido fuoco affiora alle mie membra,

e ho buio negli occhi e il rombo

del sangue alle orecchie.

E tutta in sudore e tremante

come erba patita scoloro:

e morte non pare lontana

a me rapita di mente.»


(Salvatore Quasimodo)


Note |




  1. ^ Forse manca un'ultima strofe.


  2. ^ Del Sublime, X, 2.


  3. ^ abcdefgh Gian Biagio Conte e Emilio Pianezzola, Letteratura e cultura latina. L'età arcaica e repubblicana, vol. 1, Le Monnier Scuola, gennaio 2016, pp. 514-517.


  4. ^ Molte le proposte di integrazione di quella che, probabilmente, era l'ultima strofe, in cui Saffo si rassegnava al suo amore infeliceː tra le altre, spicca quella del grecista Enrico Livrea, leggibile su nazioneindiana.com.


  5. ^ Mario Casertano e Gianfranco Nuzzo, Storia e testi della letteratura greca. L'età delle origini. L'età della lirica e della 'sapienza', vol. 1, G.B. Palumbo Editore, 2011, pp. 365-366.


  6. ^ ab Traduzioni e imitazioni da Saffo, fr. 31 V, su www.rivistazetesis.it. URL consultato il 9 luglio 2018.


  7. ^ U. Foscolo, Poesie, Firenze, Le Monnier, 1856, pp. 311-312.



Voci correlate |



  • Saffo

  • Letteratura greca arcaica

  • Trattato del Sublime

  • Classici greci conservati






Antica GreciaPortale Antica Grecia

LetteraturaPortale Letteratura



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